24 marzo 2006

Esumazione

23 marzo 2006

Cronache dalla frontiera 4

Dove ora cresce l'erba, 24 anni fa c'era un villaggio. Quando vennero a sapere che stava per arrivare l'esercito, i giovani fuggirono nelle montagne. Vecchi, donne e bambini rimasero nelle loro case e issarono un'improvvisata bandiera guatemalteca, per manifestare la loro estraneità alla guerriglia. Non servì a niente: l'insediamento venne raso al suolo, oltre ottanta persone furono massacrate. I sopravvissuti si trasferirono in un villaggio vicino, la terza comunità che visitiamo.

Cronache dalla frontiera 3

Sono passate altre due settimane. Ieri siamo tornati alla capitale per una riunione. Un viaggio lunghissimo, iniziato in un villaggio fra le montagne, alle due del mattino. Due ore di cammino fra le rocce e i campi di mais, alla luce della luna e delle torce elettriche, per raggiungere la fermata del bus e affrontare dieci ore di "camioneta".

Ma facciamo un passo indietro. Nelle mie cronache mi ero fermato alla prima comunità. È tempo di proseguire.

Nella foto si vede la casa in cui pernottiamo nella seconda comunità, Pa. La casa appartiene ad una famiglia relativamente benestante, che possiede molte "cuerdas" di terreno (una cuerda equivale a 400 m2) e coltiva caffè, come la maggior parte degli abitanti del villaggio.

Molti coltivatori di Pa. sono organizzati in un'associazione che vende caffè biologico ad una organizzazione per il commercio equo negli Stati Uniti. Ricevono 800 quetzales per quintale (120-130 franchi), contro i 600-650 quetzales del caffè "normale" (i prezzi quest'anno sono abbastanza buoni, negli anni scorsi erano scesi fino a 300 quetzales).

Il villaggio è immerso nel verde dei "cafetales", degli alberi di banane, di arance, di limoni. Il caffè cresce meglio se riceve ombra, ci spiegano. Ripidi sentieri congiungono le case, perse nella vegetazione.

Un giorno aiuto una delle famiglie che visitiamo a ripulire il "cafetal". Arbusti e erbacce crescono in fretta, in questa terra fertile, e rischiano di soffocare la piantagione. Avanziamo a colpi di machete, stando attenti a non rovinare le piantine di caffè, gli alberi da frutta e le verdure seminate disordinatamente nella piantagione. "Sei sicuro di non tagliarti un piede con il machete?", mi chiede R.

I ragazzini che stanno raccogliendo legna nelle vicinanza sorridono vedendomi lavorare. R. si stupisce quando gli parlo dell'agricoltura nelle nostre montagne. Chiede se si coltiva mais, se si mangiano tortillas, se cresce frutta, quanta gente coltiva la terra. In un'altra comunità qualcuno ci ha chiesto se i contadini nel nostro paese sono uguali a noi, bianchi come noi. "Campesino" qui è quasi sempre sinonimo di "indio".

All'ora di pranzo mi offrodi trasportare il carico di legna di uno dei figli di R. Pongo la fascia di sostegno sulla fronte e avanzo cauto, stando bene attento a dove metto i piedi. Me la cavo abbastanza bene, ma è il carico di un bambino, forse 20 chili. Gli adulti trasportano carichi di almeno 50 chili.

Il bambino cammina al mio fianco, contento di essersi liberato del peso. Va a scuola, parla piuttosto bene lo spagnolo e sulla strada di casa mi insegna i nomi degli attrezzi che ha imparato a conoscere fin da piccolo: "azadon" (zappa), "piocha" (piccone), "pala". Forse dentro di sé sorride, vedendo per una volta il mondo alla rovescia.

11 marzo 2006

Cronache dalla frontiera 2



S., un villaggio vicino a Y. Dietro le prime montagne c'è il Chiapas, Messico.

10 marzo 2006

Cronache dalla frontiera 1



13 febbraio: stiamo camminando da tre ore, io e la mia compagna di viaggio francese. Pioviggina e i nostri scarponi sono pieni di fango, un fango rossastro che si incolla alle suole e rende il passo pesante. Nel bosco circostante strani cinguettii suggeriscono una fauna ignota. Attraverso la nebbia comininciamo ad intravvedere le case di Y. Tra mezz'ora raggiungeremo la prima delle tre comunità che visiteremo durante questo mese. Alle spalle abbiamo un viaggio di undici ore dalla capitale, sei delle quali passate in una "camioneta" sovraffollata, su una strada sterrata e piena di buche.

Appena ci avviciniamo al villaggio un gruppo di bambini comincia a correre verso di noi. Gridano frasi in chu'j, uno dei tanti idiomi maya del Guatemala. Riconosciamo una sola parola: "Acompañantes!". In un attimo ci raggiungono, ridono, si aggrappano ai nostri zaini, salutano Sabrina, che già conoscono, chiedono il mio nome. Dico Andrés, rispondono Antil, il corrispettivo in chu'j.

Y. è un piccolo villaggio di una ventina di case, senza strada, senza luce, lontano da tutto salvo che dalla frontiera con il Messico. Lo fondarono negli anni Novanta i sopravvissuti di uno dei tanti massacri di civili durante la guerra in Guatemala, tornati nel loro paese dopo più di dieci anni di esilio in Chiapas. Le case sono di legno, con un solo locale che serve da cucina (con il focolare aperto, senza camino), soggiorno, camera da letto. Nelle terre attorno al villaggio si coltivano caffé - che in buona parte viene venduto - e mais, banane, arance, ananas, fagioli, vari tipi di verdure.

"Siamo i poveri resti del massacro", dice uno degli anziani. In realtà, una buona parte degli abitanti è nata dopo la fase più cruenta della guerra all'inizio degli anni Ottanta. I giovani si sposano a 14-15 anni, la pianificazione familiare è un concetto sconosciuto, i bambini sono numerosissimi. Nel villaggio c'è una scuola, dove dormiamo. I due maestri si fanno vedere solo ogni tanto. Preferiscono partecipare a riunioni più o meno verosimili in località meno sperdute di Y. In ogni caso i bambini vanno a scuola solo la mattina - quando ci vanno.

In Guatemala esistono, perlomeno nell'opinione della gente e dipendentemente dal livello sul mare, tre zone climatiche: "tierra caliente", "tierra temblada" e "tierra fria". Gli abitanti di Y. dicono di vivere in "tierra caliente". Per questo vi si può coltivare il caffè. Il villaggio si trova a 800 metri di altitudine e nelle giornate di sole fa davvero caldo. Quando le nubi si addensano sopra le montagne che lo circondano, l'idea di "tierra caliente" diventa però molto relativa.

"Che animali vivono nelle montagne qui vicino?", chiedo a F., un giovane di forse 18 anni con il look da malavitoso (pare che dopo la proiezione in un villaggio vicino di un film sulle bande giovanili - le maras -, la moda "gangster" si sia diffusa in tutta la regione). "Daini, armadilli, uccelli, elefanti", risponde sornione. Elefanti?... Sopra il focolare della sua casa stanno appesi i cadaveri disseccati di uno scoiattolo e di un "tigrillo", una specie di grosso gatto selvatico.

Un vecchio ci parla di un serpente a sette teste che vive nella laguna a due ore di cammino dal villaggio. Ci siamo stati, alla laguna, attraversando una foresta rigogliosissima. Nessuna traccia del mostro, però lo stupendo panorama ci ha ampiamente ricompensati. Non per niente alcuni uomini d'affari vicini all'attuale governo hanno mire turistiche sulla regione. Parlano di "ecoturismo", forse per attirare capitali stranieri, ma i conflitti con le comunità che da secoli usano le terre attorno alla laguna sono già programmati.

08 marzo 2006

Di passaggio da Huehue

Di passaggio da Huehuetenango, sulla via per la capitale, lascio una traccia, in attesa di raccontare quel che é successo nell'ultimo mese. Ancora stamattina mi trovavo fra le montagne al confine con il Messico (l'ultima comunitá che ho visitato si trova a 2600 metri di altitudine) e fuori dal tempo. Ci vorrá qualche giorno per riabituarmi alla cittá e alla modernitá. Poi cercheró di scrivere qualche riga in piú.